Parità di genere: a che punto siamo?

parità di genere

Parità di genere significa avere le stesse opportunità a prescindere dal sesso a cui si appartiene e seppure capiti che il sentire comune ritenga quest’ultimo un traguardo già raggiunto, l’uguaglianza di genere fa parte degli obbiettivi dell’Agenda 2030 dell’Unione Europea. 

Invero i dati non sono affatto confortanti: secondo l’ultimo Global Gender Gap Report saranno necessari altri 132 anni per raggiungere la parità di genere. Nel Gender Equality Index del 2022 l’Unione Europea registra a un punteggio di 68,6/100 dove 100 significa piena equità tra uomini e donne, ma questo scende a 65 in relazione all’Italia che registra quindi 3,6 punti in meno rispetto alla media europea. Il posizionamento peggiora ulteriormente se si fa specifico riferimento all’indice chiamato “partecipazione economica e opportunità” dove l’Italia si classifica tra le ultime in Europa.

Ancora, nel mondo il divario retributivo medio per le donne che lavorano a tempo pieno si aggira intorno al 14% e la quota di donne nei consigli di amministrazione delle aziende è pari al 23%.

Le statistiche, tuttavia, riportano che le donne sono più e meglio istruite ed esistono ricerche che hanno riscontrato che nelle aziende dove le donne superano il 40% del personale la produttività aumenta anch’essa di 8 punti percentuali. Il Fondo Monetario Internazionale ha persino calcolato che qualora in Italia l’occupazione femminile raggiungesse quella maschile la crescita del PIL sarebbe dell’11%.

E allora perché esiste ancora così marcato questo divario?

La risposta è ovviamente complessa, nondimeno possiamo provare a semplificarla individuandone la principale causa: la cultura.

Le norme culturali e sociali hanno un’influenza decisiva sulla parità di genere soprattutto in tema di lavoro. In Italia, molte donne devono scegliere tra la famiglia e la carriera. Inoltre, la divisione del lavoro a casa è spesso tristemente squilibrata. Nel 2021 il 48% delle donne, contro il 29% degli uomini, hanno dichiarato di accudire completamente o per lo più da sole i figli piccoli, un fenomeno che si è ovviamente acuito durante la pandemia. Va da sé che tale stereotipizzazione dei ruoli porta ad un elevato tasso di disoccupazione delle donne che posiziona l’Italia medaglia di bronzo europea (il tasso di disoccupazione femminile in Italia è del 47,3%). Il divario aumenta ovviamente nell’ipotesi in cui ci siano dei figli. Da considerare, infine, che la fetta di donne-madri occupate sceglie (rectius: è costretta a scegliere) di lavorare con contratti del tipo part-time per conciliare vita e lavoro (con tutta una serie di drastiche conseguenze, per citarne una tra tante, una base reddituale di gran lunga inferiore ove calcolare la percentuale del congedo parentale).

Sulla scia della legislazione europea, anche in Italia si stanno riscontrando importanti novità per quanto riguarda la parità di genere, per invertire la rotta. Ultima tra le tante l’introduzione nel 2022 della Certificazione di Parità di Genere. Tale istituto è stato introdotto dalla cosiddetta Legge Gribaudo (n. 162 del 2021) la quale rivolgendosi alle aziende, permette di formalizzare un riconoscimento nei confronti delle realtà più virtuose in tema. La Certificazione ricalca tendenzialmente le caratteristiche delle certificazioni ISO già esistenti in altre materie e ha come riferimento la Prassi UNI 125:2022, che ne definisce i requisiti. Gli indicatori di performance in essa contenuti consistono in una serie di parametri che spaziano in tutti i dipartimenti aziendali. La molteplicità dei KPI permette di monitorare a fondo la realtà aziendale che potrà collezionare punti non sono realizzando indicatori quantitativi, ma anche indicatori qualitativi evidenziando politiche di genere particolari attive nella realtà aziendale (opportunità di crescita, parità salariale, tutela della maternità). La Certificazione non è obbligatoria, ma il suo conseguimento permette di ottenere vantaggi diretti e indiretti. Tra i primi si registrano l’esonero dal versamento dei contributi previdenziali, nella misura massima dell’1% e sino al limite di 50.000 euro annui; l’ottenimento in sede di gara, di una premialità nella partecipazione a bandi italiani ed europei, la riduzione del 30% della cauzione provvisoria (sotto forma di garanzia fideiussoria) dovuta alle stazioni appaltanti dalle aziende che vogliono partecipare alle gare pubbliche. Tra i vantaggi indiretti, la Certificazione permette all’azienda di migliorare la propria reputazione e attirare l’attenzione positivamente sul mercato.

Attualmente tra i certificati si registrano, per citarne alcuni: Bioleader, Autostrade per L’Italia, Intesa Sanpaolo, Amazon Italia, Acea, Illimity. Il progetto del PNRR, con l’investimento della cospicua somma di 1.3 milioni della Missione 5,  punta entro il 2026 a far ottenere la certificazione ad 800 aziende, di cui almeno 450 piccole e medie, cui si aggiungeranno 1000 che la otterranno assieme a un’assistenza tecnica (agevolazioni).

Articolo di Ilaria Cicetti 

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